Racconti nelle notti d’estate

Racconti nelle notti d’estate


Anche se ogni stagione aveva la sua bellezza e il suo fascino, l’estate era certamente quella che noi ragazzi preferivamo.
Essa giungeva al tempo delle messi e passava riversando in ogni luogo abbondanza di ogni bene.
Le giornate erano cariche di incontri.
Dopo cena c’erano tre o quattro gruppi di persone nella nostra via: si sedevano a prendere il fresco. Noi ragazzini giocavamo tutti insieme, ma poi, a una certa ora, zia Luisa prendeva una canna e minacciandoci dava il segnale della ritirata, perché c’era gente vecchia e malata che aveva bisogno di riposare la notte.
E così noi ci inserivamo a piacere nei gruppi, dove eravamo sempre accolti volentieri.
Si raccontavano un’infinità di storie antiche, sempre nuove per noi, sempre piene di umorismo, di terrore e di fascino insieme, che non ci facevano dormire la notte, ma che nonostante tutto volevamo sempre sentire.
Il racconto che ci spaventava di più era quello della morte. Si sentiva tutte le notti passare col suo carro. Anche la notte scorsa era passata.
Raccontavano che quando in paese c’era stata la spagnola, la morte rimaneva giorno e notte girando col suo carro da un capo all’altro del paese e quando in una casa c’era un morto e un altro moribondo, lei per non stare lì a passare e ripassare li buttava tutti e due nel suo carro. E i morti li avvolgevano in un lenzuolo, perché le bare costavano troppo e la gente soldi non ne aveva. E se non erano morti bene, faceva lo stesso.
Ecco perché noi avevamo tanta paura della morte. Paura che potesse prenderci mentre eravamo ancora in vita. Raccontavano che la morte, quando entrava nelle case a prendere la gente, diceva:
” Seu in su primu gradiu”
“ Oiamommia” Dicevamo noi, quasi ci fossimo noi dentro quella casa.
Ma le vicine non facevano niente per fermare la morte, e il racconto inesorabilmente continuava.
“Seu in su segundu gradiu”
“Oiammomia tiarrori mannu”. Qualcuno gridava; qualche altro si alzava cercando di tappar la bocca a chi stava raccontando.
“Seu in su terzu gradinu”
“Agitoriu! Ma ita oidi fai sa motti?”
C’era una vicina che faceva la voce grossa che sembrava uscisse da un monte:
” Sa motti est benendu a si ndi liai!”
“ Ohi, no dda fatzeis intrai!”
“Osatrus basci a si croccai, ca sa motti no si faidi nudda!”
“E cumenti fadeus, ca dda timeus troppu!”
“Seu in su quintu gradinu!”
Bisognava far coraggio, perché implacabilmente il racconto continuava e chissà cosa sarebbe successo quando la morte sarebbe arrivata all’ultimo gradino! Come minimo ci sarebbe saltata addosso senza darci neppure il tempo di scappare.
E allora bisognava scappare quando eravamo ancora in tempo. Solo che nessuno voleva andare avanti e nessuno voleva stare indietro.
Allora ci prendevamo per mano e urlando cominciavamo la rincorsa entrando a due a due, a tre a tre, nelle nostre case e ci infilavamo in mezzo alle lenzuola pressandoci la testa col cuscino.
“Seu in su primu gradinu”. Ci sembrava di sentire.
Doveva farne sedici di gradini la morte per arrivare nella mia stanza.
Sopraffatta dalla disperazione, mi alzavo e andavo nel letto di babbo e mamma.
“Anche stanotte hai paura!” Mi dicevano. E rassegnati mi facevano posto in mezzo a loro.