Signorina Giulia

Signorina Giulia


Signorina Giulia, quando entrava in classe, raddrizzandosi i capelli, che teneva legati con una crocchia che col passare degli anni diventava sempre più piccola, diceva sempre!:
“Oggi ho un diavolo per capello”
Dalla sua furia gli alunni venivano fuori o pestati, o graffiati, o insanguinati e, certe volte, spennati anche.
Di lei io però non ricordo un rimprovero, uno schiaffo, mentre mi è rimasto nell’anima il terrore che avevo di lei.
Non voglio nemmeno ricordarmi l’incubo della volta che mia sorella Angela, o per dispetto o per scherzo, mi aveva infilato dentro la borsa quel maledetto soffietto di paglia che usava babbo quando accendeva il fuoco.
Babbo d’inverno non si metteva per niente ad accendere il fuoco. Prendeva una carriola, ci caricava sopra un ceppo che doveva durare come minimo un paio di giorni, due fascine di sarmenti per farlo accendere. Si fermava nella porta di cucina che dava sul cortile, si faceva aiutare da qualcuno, e portava tutto dentro il caminetto. Se la cosa andava bene il fuoco era presto fatto. Un foglio di giornale, un fiammifero, gli stecchi scoppiettavano, lambivano il ceppo e questo pian piano si infiammava tutto.
Se c’era qualche intoppo, con pazienza babbo prendeva il soffietto e con un po’ d’incoraggiamento le fiamme avevano la meglio. Il fuoco si accendeva riempiendo la cucina di luce. Ma se la cosa cominciava ad andare male e il foglio di giornale non bastava e il soffietto neppure, allora babbo faceva presto a rovesciare sopra la legna un mezzo boccale di nafta …e allora ne vedevi fuochi fatti e soffietti infiammati.
Ecco…quel soffietto che mi ero ritrovata in borsa sul più bello della lezione, doveva essere stato scampato per miracolo da un rogo simile, e doveva essere anche odorante e macchiato di nafta, vista la mia disperazione.
Ero rimasta tutta la mattina piantonata nel banco, come una chioccia nella sua cova. In più, come se il diavolo si fosse messo di mezzo, negli ultimi dieci minuti di lezione, signorina Giulia si era messa a controllare le borse, per vedere se le avevamo in ordine. Io sentivo che non sarei sopravvissuta a quel terrore. Per poco non mi saltava il cuore a furia di battere forte. Ma poi fortuna aveva voluto che la maestra si fosse intrattenuta a dare una sussa a una compagna che nella borsa aveva il quaderno della sorella; nel frattempo era suonata la sirena e dalle sue grinfie mi ero salvata.
Salvandomi, però, mi ero sentita io la sua furia addosso contro mia sorella che mi aveva combinato quel brutto scherzo e appena l’avevo vista, tutta allegra con i suoi compagni di scuola, le ero saltata addosso come un cane rabbioso graffiandola, picchiandola, tirandole i capelli, senza darle spiegazione di nulla; facendole esattamente quello che signorina Giulia avrebbe fatto a me se mi avesse trovato in borsa quel maledetto soffietto.
E un altro ricordo umiliante mi porto nel cuore: uno zero spaccato nel quaderno, grande quant’era la pagina che avevo scritto il giorno. Avevo pianto tutta la mattina, non avevo fatto colazione, non ero andata in bagno.
Quand’ero tornata a casa, mamma si era spaventata.
“Cos’hai?” mi aveva chiesto.
“Non lo so: ho freddo, mi gira la testa, mi lacrimano gli occhi”.
“Dev’essere l’influenza” E mi aveva scaldato un mattone, me l’aveva messo nel letto, mi aveva messo sotto le coperte rincalzandomele per bene, aveva chiuso porta e finestre e mi aveva lasciato così.
Io mi sentivo come dentro un forno. A pranzo non avevo voluto mangiare nulla.
Dopo pranzo, come al solito signorina Giulia era venuta a prendere il caffè e subito dopo era salita in camera Marinella, la mia sorella maggiore.
“Ti senti ancora male?” mi aveva chiesto.
“Un po’, però freddo non ne ho più”
“Allora ti tolgo il mattone”
“Forse è meglio”
“Vuoi che apra la finestra?”
“No, quella no”
“Dimmi…ehm…però oggi non me l’hai fatto vedere il quaderno…”
Io allora esplosi in un pianto disperato e stringendola forte al cuore, quasi volessi proteggerla dal dispiacere grande che le dovevo dare, le risposi: “Oh, non posso, sai? Non posso, perché è troppo grande lo zero che mi ha messo oggi signorina Giulia”.
Quella era stata una sofferenza veramente amara per me, che aveva lasciato tracce profonde nel mio modo di essere e di pensare. Non serbai rancore verso la maestra, ciò nonostante da quel giorno la mia vita cambiò.
Pensai che se avessi esultato meno dei bei voti che la maestra mi metteva, se solo fossi riuscita a essere meno ariosa, a contenermi conservando quell’entusiasmo per i giorni tristi, forse non avrei sofferto tanto per quello zero. Pensai a quei poveri bambini che zero lo prendevano tutti i giorni e a quegli altri poveretti che, costretti dall’insegnante, accompagnati da un compagno, giravano per tutto il paese con un paio di orecchie d’asino fatte di cartone e col quaderno appeso sulle spalle con zero spaccato.
Pensai che avrei dovuto ridere meno quella volta che signorina Giulia aveva dato un colpo di righello in testa alla mia compagna di banco.
Lei si era volta sofferente verso di me e mi aveva detto:
“Cosa credi che non pizzica?”
Io risi ancora di più, perché ci credevo e come che quel righello fatto calare in testa a mo’ di saetta doveva pizzicare e come! E l’indomani mi faceva ridere il bernoccolo. E avevo trovato comico che signorina Giulia si fosse ritrovata nelle mani il mazzo di capelli di quell’altra compagna. E su mille altre cose cominciai a riflettere. Forse tutte queste cose allora non avrei saputo dirle, però le avevo ampiamente valutate e mi facevo molto seria quando mi preparavo per andare a scuola. E dei bei voti non esultavo più. E nemmeno delle lodi e degli elogi.