Zia Angelina Paschina

Zia Angelina Paschina


In casa la vita era frenetica, non avevi un attimo di respiro, tutti in eterna agitazione andando e venendo da una parte all’altra. E se non si lavorava si parlava, si rideva, si scherzava, si litigava.
Ma per il silenzio non c’era posto. Il silenzio e la tranquillità erano banditi, perché erano sinonimi di inettitudine, di inefficienza, di tedio.
Ecco perché io, appena potevo, me ne andavo a casa di una vecchietta che abitava a due passi da casa. Lei mi accoglieva come un bene prezioso ed io in lei trovavo la pace e la serenità di cui avevo bisogno. In casa sua sentivo il sapore del silenzio, della tregua.
Quando cominciava a calar la sera ci sedevamo nel suo cortiletto, lei nella sedia grande, io nella piccolina e…non so perché questo ricordo mi infonda un sentimento di pace. Ancora.
Il cortile era un po’ in discesa, c’erano due alberi di lillà, un pozzo, muri pericolanti e cumuli di laterizi, una pianta di fico che cercava il sole e una gallina che ci guardava curiosa. Non parlavamo molto, perché lei era sorda come una campana e da qui a farla sentire crollavano i muri e scappava la gallina.
Perciò, per un mutuo accordo avevamo scelto per il nostro star bene insieme la via del silenzio.
I nostri dialoghi, quando c’erano, erano mediati dalle immagini, perché zia Lina, quando mi voleva raccontare qualcosa, prendeva la scatola dove teneva tutti i suoi ricordi: fotografie, cartoline, lettere, partecipazioni.
La casa di Lina era composta dalla cucina, una camera da letto e due stanze. In tutta la casa c’era la un’unica finestra nella camera un fondo che dava sul nostro cortile, la stanza attigua era leggermente illuminata da una tegola di vetro; completamente buia la camera da letto, mentre la cucina riceveva la luce dalla porta. Nella cucina c’erano due tavoli, “su stanti” un telaietto costruito da due assi verticali e due orizzontali per appendervi pentole, casseruole e scodelle; “ su parastaggiu”, per riporvi i piatti, “sa taba de is marigas” per riporvi le brocche, “is forreddus” i fornelli che funzionavano a carbone, e “sa ziminera” il caminetto. Dalla cucina partiva una scala in legno che portava al solaio al quale si accedeva mediante una porticina piccola piccola, che teneva sempre chiusa. Il tetto era molto basso e formato da canne su cui poggiavano le tegole.
Il soffitto della camera da letto invece, siccome sopra c’era il solaio, era costituito da larghi tavolati che poggiavano su travi incassate nei muri.
Il pavimento di tutta la casa era “a fomentu”, impasto di argilla. Le due camere in fondo non erano utilizzate. C’erano enormi quadri del re, della regina Elena e della regina Margherita. E lì io giocavo a far la bottegaia facendo gli scaffali con le cassette dei pomodori. La camera da letto invece era strapiena di roba: letto, comodino, comò, credenza, armadio , attaccapanni, sedie. Strapieni di roba erano i mobili.
La scatola di latta dei ricordi era nel terzo cassetto del comò, sempre più difficile da aprire perché tutto sgangherato. Ma Lina non si lamentava mai, prendeva la scatola e veniva a sedersi accanto a me e con me ripassava tutta quanta la sua vita.
E così ogni cosa passava dalle sua mani alle mie con tutta la ricchezza di vita del passato alla luce del presente.
Ed è proprio attraverso quelle immagini che io entravo di soppiatto nel mondo dei grandi, nel mondo del misterioso e tragico amore del figlio per una ragazza di Trieste. Tra qualche cartolina che lei tergiversava nel farmi vedere, che riprendeva amanti in focosi abbracci dentro cuori inghirlandati, tra qualche frase di passione che di sfuggita riuscivo a leggere, io sentivo il sapore di questo accorato sentimento che sconfinava nell’irreale.
Nella camera da letto, appeso a una parete, c’era un enorme ritratto del figlio con la ragazza: lei con lo sguardo patetico rivolto verso di lui; lui trasognato, dubbioso quasi della realtà che stava vivendo. Questo ritratto era come il preludio della tragedia che si sarebbe abbattuta su di loro.
Perché quest’amore che sconfinava nel sogno era finito nel tragico. Lei, nella fobia dell’abbandono, quando lui era venuto in licenza in Sardegna, si era suicidata e lui, a sua volta lui si era sparato quando, ignaro del fatto, si era presentato in casa di lei ed era stato scacciato con una grandinata di accuse e responsabilità. Piegata mille volte, scolorita da centomila lacrime, in fondo alla scatola dei ricordi zia Lina custodiva l’ultima lettera del figlio, quella che aveva scritto prima del suicidio. Su quest’ultima lettera straziante d’addio, io con Lina avevo pianto mille volte, mille volte su di essa ho riflettuto pensando alla vita, alla morte, all’amore, al sogno.