La molitura delle olive

La molitura delle olive


In casa avevamo il frantoio elettrico e a macinare venivano anche agricoltori dei paesi vicini, perfino da Serrenti e Nuraminis. L’attività si protraeva oltre Natale. Il frantoio rimaneva in funzione giorno e notte.
In casa c’erano olive da tutte le parti, nel cortile carrelli pieni di sacchi, furgoni per il carico della sansa, macchine e motocarrozzelle, carrette con cavalli e asini, urla in continuazione di gente che dava segnali di manovre.
Le olive venivano frantumate in una grande macina e la pasta veniva poi uniformemente distribuita nei fiscoli, che avevano la forma di corone circolari. I fiscoli venivano disposti uno sopra l’altro su un carrello, inframmezzati ogni dieci da un disco di ferro. I carrelli, pieni di fiscoli, passavano alle presse. Qui la pasta delle olive perdeva tutto il liquido; poi il separatore scindeva l’olio dall’altro liquame.
Nel frantoio lavoravano, in tre turni, una ventina di operai che facevano un pasto in casa. Mamma era sempre alle prese con la roba da mangiare. Non mancava mai il pane fritto con l’olio nuovo, unto con quei pomodori piccoli, a loro volta fritti in un tegame a parte.
Dei pentoloni di minestrone che faceva mamma se ne ricordano tutti. Ancora.
Al figlio di zia Minia, Dante, piacevano molto le lenticchie. Ne mangiava anche tre piatti.
Appena si sedeva a tavola guardava il pane, che di solito era “civraxiu”, prendeva un coltello e ne tagliava un paio di fette. I compagni se le passavano da uno all’altro e quando Dante finiva di tagliare pane per lui non ce n’era.” Ma, vi volete prendere un brodo!” Diceva e ricominciava a tagliare il pane. Era sempre allegro, pronto alla battuta.
A zio Bissente lo faceva imbestialire. Gli diceva che era stato un grande soldato nella prima guerra mondiale. E zio Bissente non lo negava. Ma poi Dante continuava e gli diceva che anziché fare prigionieri i nemici, faceva prigionieri gli stessi compagni.
Zio Bissente diventava rosso dalla rabbia. “Finiscila, Dante!” gli diceva mamma.
“Scherzo” rispondeva lui “Era zio Bissente che gridava ai compagni: – Venite, ho con me trenta prigionieri! – Vieni tu Bissente da noi, con i tuoi trenta prigionieri . gli rispondevano i compagni dall’altra vallata. – Non posso. Non mi lasciano andare!-
Beh, questo era troppo. A quel punto zio Bissente la pazienza la perdeva tutta: si alzava di scatto e poco ci mancava che passasse alle mani. Ma Dante si tirava un po’ indietro spostandosi con la sedia, faceva un sorriso benevolo e anche a zio Bissente scappava la risata. Per il giorno finiva così. L’indomani erano di nuovo sul campo di guerra con la solita questione. Questo finché durava la campagna delle olive.
Nel frantoio c’era sempre una grande stufa a legna per riscaldare l’acqua che andava tra i fiscoli, nella pressa. Quando l’acqua era sufficientemente calda, gli operai portavano in cucina pale di brace.
Nell’aria si sentiva il tepore che veniva dal frantoio, dalla cucina, dalle chiacchiere della gente che sostava nel cortile, tra una molitura e l’altra. E ci sentivamo un po’ tutti come in una grande famiglia. Dopo cena la porta del magazzino si chiudeva. Il lavoro continuava.